Come funziona il magistero di papa Francesco l'ha spiegato pochi giorni fa un suo pupillo, l'arcivescovo Bruno Forte. Ha raccontato che durante il sinodo sulla famiglia, di cui era segretario speciale, il papa gli ha detto:
"Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino ci combinano. Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io".
E così, grazie a questo "saggio" consiglio – ha proseguito Forte – le cose sono andate a "maturazione" ed è arrivata l'esortazione papale "Amoris laetitia". Nella quale i riformisti hanno trovato ciò che volevano.
Quella di Forte non è una confidenza carpita a tradimento. L'ha detta dal palco del teatro della città di Vasto, di cui è arcivescovo, davanti a una platea gremita. "Tipico di un gesuita", ha poi commentato con un sorriso.
Perché Francesco fa proprio così. Non dice mai tutto ciò che ha in mente. Lo fa solo indovinare. E lascia correre le interpretazioni anche più disparate su ciò che dice e scrive.
Che in colloqui privati si usi anche questo stile d'approccio, si può capire. Ma Jorge Mario Bergoglio lo esercita sistematicamente in pubblico, nei suoi atti di magistero ufficiale, anche quando tutti si aspettano che tiri le somme e dia una risposta chiara e definitiva.
Rispetto al magistero dei papi precedenti, scolpito nella roccia, limato parola per parola, inequivocabile, quella di Francesco è una svolta epocale.
"Amoris laetitia" ne è la prova lampante. Al leggerla, il cardinale e teologo tedesco Walter Kasper, che da decenni è il fautore più agguerrito della comunione ai divorziati risposati, non ha avuto dubbi: i riformisti come lui, ha dichiarato esultante, hanno ora "il vento in poppa per risolvere tali situazioni in un modo umano".
Ma un altro cardinale teologo suo connazionale, Gerhard Müller, vi ha letto il contrario. Ha detto che non c'è niente, nella "Amoris laetitia", che chiaramente rovesci il magistero della Chiesa di sempre, che quella comunione la vieta. E Müller non è uno qualsiasi, è il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cioè la suprema istanza di controllo della dottrina.
Chi crede però che a questo punto Francesco debba dire chiaro da che parte sta, di certo resterà deluso. Perché intanto il papa ha promosso un terzo cardinale, l'austriaco Christoph Schönborn, a massimo interprete di sua fiducia dell'esortazione postsinodale. Incarico che Schönborn sta svolgendo alla perfezione, con spiegazioni anch'esse in stile Bergoglio, tutte di nuovo da interpretare, sul confine ambiguo tra la dottrina data per immutata e le applicazioni pastorali che devono essere nuove e mutevoli.
No alle porte sbarrate, no alle rivoluzioni. Ma la terza via ideata da Francesco non è affatto immobilista. Tutto il contrario.
Rimettendo in discussione ciò che prima di lui appariva definitivo ha aperto un processo che dà pari cittadinanza alle opinioni più inconciliabili, e quindi anche ai riformisti più accesi.
L'esempio forse insuperato di questa sua invenzione Bergoglio l'ha dato lo scorso febbraio, quando è andato in visita alla chiesa luterana di Roma.
Una protestante sposata con un cattolico gli chiese se poteva fare anche lei la comunione, assieme al marito. E lui le rispose con una tale girandola di sì, no e non so da non lasciar capire, alla fine, quale conclusione trarre, se non questa: "È un problema a cui ognuno deve rispondere".
Inutilmente il cardinale Müller, nei giorni successivi, si affannò a ribadire che la dottrina della Chiesa sul punto non era cambiata. Perché di certo il papa l'ha resa opinabile, lui per primo, col suo dire, disdire e contraddire.
Hanno un bel resistere i vescovi e cardinali dell'Africa, o dell'Europa orientale, o della scuola di Wojtyla e Ratzinger. Il cardinale Kasper ha capito benissimo come ora stanno le cose: "C'è libertà per tutti. In Germania può essere consentito ciò che in Africa è proibito".
Con papa Bergoglio avanza un nuovo modello di Chiesa, liquida, multiculturale.