Infatti, la dimensione della repressione dipendeva dal luogo in cui viveva la comunità cristiana. L’appartenenza alla parte interna dell’impero rendeva impossibile qualsiasi forma di resistenza e le repressioni erano così violente che lasciavano spazio soltanto a due atteggiamenti: eroica perseveranza e martirio, oppure totale sottomissione o addirittura apostasia. La fede poteva essere confessata in modo privato o in clandestinità. Nella parte esterna dell’impero esisteva, invece, un certo margine-spazio per dimostrare la propria indipendenza e anche, talvolta un’efficace resistenza. Il cesaropapismo staliniano presupponeva la superiorità del potere laico su quello ecclesiastico, l’imposizione della visione atea del mondo all’intera popolazione e l’uso strumentale della legge contro la Chiesa. Con forte determinazione quindi si portò avanti il programma della distruzione della religione in Unione Sovietica: qui dopo il 1945 le repressioni, specialmente contro la Chiesa cattolica, furono molto crudeli.
I nuovi Paesi annessi al blocco sovietico, finora legati alla cultura occidentale, dovettero fare un’inversione di marcia e creare un apparato politico-militare orientato al combattimento dell’influenza religiosa, non solo delle Chiese cristiane, ma anche, (come per esempio in Albania) della religione, nonché della tradizione musulmana. Questa forma di governo, già ben sperimentata in Unione Sovietica e dopo il 1945 proposta in quasi tutti i Paesi del blocco sovietico, ha espresso in Albania, soprattutto nell’ambiente religioso, una forma di particolare brutalità. La vita religiosa di tutte le comunità religiose, non solo cristiane, fu sottoposta a una dura persecuzione. Il concetto politico di Josef Stalin chiedeva una sottomissione della Chiesa al potere dello Stato e utilizzava il potere per obbligare tutti i cittadini all’accettazione del sistema ateo. Questo principio fu perseguito con una particolare crudeltà sui territori dei nuovi Stati inseriti nel territorio dell’Urss: Lituania, Lettonia, Estonia, Bielorussia, Ucraina, Moldova: la religione fu ancora per un certo periodo tollerata, come un relitto dei tempi vecchi, ma doveva essere eliminata dallo Stato moderno e decisamente cancellata dalla vita della società.
L’anno 1948 costituisce un punto di svolta nello sviluppo dei rapporti Chiesa-Stato in Europa: in quell’anno iniziò tra Oriente e Occidente un confronto ideologico, tale da provocare un aumento della tensione in tutto il mondo. Il Movimento comunista internazionale decise di rompere con la politica di tolleranza verso qualsiasi forma di opposizione politica e di costruire un sistema di totale controllo sulla vita sociale, economica e spirituale delle nazioni: tra le priorità di questo programma situò la lotta contro la Chiesa cattolica. Al Convegno dei partiti comunisti a Szklarska Poręba in Polonia, dal 22 al 27 settembre 1947, il rappresentante russo Andriej Aleksándrovic Ždanov (1896-1948) presentò un piano di eliminazione della Chiesa cattolica in tutti i Paesi del blocco sovietico. Il suo progetto si basava sul modello sovietico applicato negli anni Venti nell’Urss e consisteva nella distruzione delle gerarchie e poi dei più eminenti tra sacerdoti e laici. Nella prima fase dovevano essere arrestati i vescovi, eliminando così la guida della Chiesa, e si dovevano isolare le persone apprezzate dai credenti. Allo stesso tempo, bisognava creare gruppi di laici collaborazionisti, fedeli al regime e avversari della gerarchia.
Nei Paesi dove i governi avevano collaborato con il Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale, come Bulgaria, Croazia, Slovacchia, Ungheria e Romania, le persecuzioni della Chiesa iniziarono subito dopo la fine della guerra, già nel 1945, con la pretesa di combattere un comune nemico ostile all’intero popolo. Le persecuzioni che la Chiesa subì negli anni Quaranta e Cinquanta, nell’Europa dominata dal potere sovietico, distrussero tante delle sue strutture fondamentali, ma non riuscirono a sradicare la religione dalla coscienza popolare. Fallì il tentativo di creare un’alleanza atea nel cuore dell’Europa cristiana. Le azioni contro la Chiesa avevano il carattere di una campagna politica, legata a contingenti problemi interni e l’efficienza di quelle azioni dipendeva dalla determinazione dell’élite comunista nella lotta contro la religione, dalla resistenza sociale e infine dalla posizione che la Chiesa occupava dentro ciascuna nazione. Dopo il 1956, si formò definitivamente un modello di rapporti Chiesa-Stato, un modello totalitario, tendente verso il pieno controllo della vita ecclesiale. Presupponeva anche l’ateizzazione forzata di larghe fasce sociali e le repressioni contro i dissidenti.
Si possono individuare due modi di agire dei comunisti nei confronti della Chiesa. Il primo si formò negli anni Cinquanta e rimase in vigore fino agli anni Ottanta in Cecoslovacchia, Romania e Bulgaria. Consisteva principalmente nella liquidazione delle gerarchie, limitazione dei contatti con la Santa Sede, stretta sorveglianza di ogni forma di attività pastorale, divieto di associarsi per i laici. In questa situazione, aumentavano le strutture illegali riunite intorno a vescovi e sacerdoti ordinati clandestinamente. L’altro modello, in diverse varianti, lo troviamo in Ungheria, Jugoslavia e Ddr. Si caratterizzava per una più ampia tolleranza verso la Chiesa. Le autorità di questi Paesi ammettevano l’esistenza della gerarchia, delle strutture ecclesiastiche e non impedivano contatti con il Vaticano. Creavano, invece, numerosi ostacoli di carattere amministrativo, specialmente per l’educazione religiosa e l’attività sociale della Chiesa. Il caso della Polonia non rientra in nessuna di queste categorie e le ragioni sono diverse, non ultima il fatto che la fase più dura della persecuzione staliniana in Polonia fu molto breve.
Al progetto [editoriale] hanno collaborato più di cinquanta studiosi, provenienti da diversi Paesi, sicché ciascuno può essere considerato non solo autore dell’articolo, ma anche e soprattutto testimone degli eventi che ha raccontato. Trattandosi di storici, il lavoro è basato su una seria ricerca archivistica e documentale. Gli autori sono in gran parte o professori universitari o docenti presso i seminari delle loro diocesi. I contributi sono stati scritti nelle diverse lingue degli autori e tradotti in italiano, che da molti anni è diventata la lingua più parlata nella Chiesa, man mano che si è dimenticato il latino. In tal modo, si spera di dare all’opera una più ampia diffusione.
Nei diversi articoli [del libro] sono presentati molti personaggi che, a ragione della loro fede, vennero perseguitati, imprigionati e uccisi. Molti di loro, grazie alla sensibilità e all’attenzione di Giovanni Paolo ii, sono stati riconosciuti come martiri dalla Chiesa e per molti altri il cammino verso la beatificazione è ancora in corso. Infatti, è grazie all’esperienza vissuta in prima persona dall’uomo e sacerdote Karol Wojtyła, ancor prima di essere Papa, figlio della terra polacca, che questi martiri dei tempi moderni sono stati conosciuti dal mondo intero, facendo emergere le brutalità del regime comunista. Giovanni Paolo ii, un Papa polacco, ha avuto personalmente una grande importanza nello storico crollo del comunismo. La sua esperienza e sensibilità politica, il grande coraggio e la conoscenza personale delle debolezze ideologiche ebbero grande successo nelle relazioni con i Paesi governati dai governi comunisti.