IL TIMONE – Settembre – Ottobre 2001 (pag.48-49)
di Andrea Tornielli
A Roma, nella Basilica di Santa Croce a Gerusalemme, si conserva il “titulus crucis”: una parte dell'iscrizione posta sopra il capo di Gesù in croce. Vi fu portata da s. Elena, madre di Costantino. Studi recenti confermano l'autenticità della reliquia.
E confermano la storicità del racconto evangelico.
Erasmo da Rotterdam, per criticare l'abuso delle reliquie, disse che se si fossero messi insieme tutti i frammenti attribuiti alla vera croce di Gesù venerati in chiese e monasteri si sarebbe ricostruita una foresta. Si sbagliava.
È stato infatti calcolato che unendo tutte, ma proprio tutte le schegge lignee attribuite al patibolo desti¬nato a diventare il simbolo del cristianesimo, si riuscirebbe a malapena a formare uno dei due bracci della croce. E oggi le più recenti ricerche scientifiche confermano l'autenticità di reliquie venerate da secoli o da millenni. A di¬stanza di pochi mesi uno dall'altro, due studiosi, Carsten Peter Thiede e Michael Hesemann, hanno pubblicato libri che analizzano uno dei reperti più affascinanti e misteriosi della storia: il “Titulus Crucis”, l'iscrizione con la scritta “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”, appesa sul palo verticale del¬la croce, so¬pra il capo del Salvatore. Pochi sanno che que¬sta eccezionale reliquia, dalla storia rocambolesca, è visibile nella Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme, dove vi fu portata da sant'Elena, la madre dell'imperatore Costantino. Molte fonti antiche parlano del viaggio a Gerusalemme dell'ormai anziana donna, avvenuto nell'anno 325. Bisogna ringraziare l'imperatore Adriano – che in odio ai cristiani fece costruire un tempio ad Afrodite nel luogo della sepoltura di Gesù – se a distanza di quasi trecento anni dalla morte e resurrezione del Nazareno quel sito, venerato dai pri¬mi cristiani, venne recu¬perato con facilità.
Elena fece distruggere il tempio pagano e fece scavare. Ritrovò il Santo Sepolcro e poco distante una cisterna, compresa nell'area del giardino di Giuseppe d'Arimatea, il ricco giudeo che aveva do-nato la sua tomba di fa¬miglia per la sepoltura di Gesù. All'interno della ci¬sterna, grazie al fango, si erano conservate le croci. Le braccia orizzontali, che venivano issate e poi abbassate per togliere il corpo del condannato. E i tre pali verticali, che dove¬vano essere rimasti infissi sulla roccia del Golgota (uno spuntone di pietra bianca assomigliante a un cranio) fino a quando l'allargamento delle mura di Gerusalemme non aveva incluso il luogo all'interno della città. Bracci verticali e orizzontali erano separati tra di loro. Secondo la tradizione, l'indicazione di quale fosse la vera croce Elena la ottenne avvicinando i legni a un malato in fin di vita, che guarì all'istante a contatto con il patibolo di Cristo. Ma questa è una tradizione poco interessante per la scienza. Ciò che interessa è che nella cisterna, insieme alle croci, c'era anche il “Titulus”, l'iscrizione. Sant'Elena divise la tavola in due parti, lasciando a Gerusalemme il pezzo con la scritta “Rex Judaeorum” (Re dei Giudei). Di questa parte del “Titulus” parlano diversi pelle¬grini antichi, tra cui Egeria, che viaggia in Terra Santa 58 anni dopo il ritrovamento, e Antonino da Piacenza nel 570. Le sue tracce, però si perdono dopo il saccheggio del Santo Sepolcro ad opera dei persiani.
Tornata a Roma con il pezzo del “Titulus”, i frammenti della vera croce e alcuni dei chiodi ritrovati nella cisterna, la madre del¬l'imperatore li fece sistemare nella cappella del suo palazzo, dove ora sorge la Basilica. Papa Gregorio Magno (590-604) iniziò a celebrare in questo luogo le liturgie del Venerdì Santo, e già dal 500 la chiesa non si chiama più Sant'Elena ma Santa Croce. Papa Lucio II, nel XII secolo fece ristruttura¬re l'intero edificio.
L'iscrizione fu rinchiusa in una cassetta e murata dietro una mattonella, e venne ritrovata soltanto durante i lavori di restauro del¬la Basilica, ordinati dal cardinale Mendoza nel 1492. La parte del “Titulus” che è arrivata fino a noi è rappresentata da un rettangolo di legno di noce del peso di 687 grammi lungo 25 centimetri, alto 14 e spesso 2,6. I bordi sono piuttosto sfaldati e ciò rende incomprensibile la parte con le lettere ebraiche o aramaiche. Sono in¬vece riconoscibilissime le due scritte Nazarenous con caratteri greci e Nazarinus re(x) in caratteri latini. Sia il greco che il latino non sono scritti cor¬rettamente da sinistra verso destra, ma al contrario, da destra verso sinistra, secondo l'uso ebraico. La paleografia conferma che si tratta del modo di scrittura in vigore nel I secolo dopo Cristo. E questo significa, secondo Hesemann, escludere il rischio di falsificazioni, dato che gli studi paleografici si sono sviluppati nell'Ottocento e a un falsario bizantino o medioevale non sarebbe mai passato per la mente di cercare dei modelli del primo secolo per copiare o crea¬re una reliquia. Ma c'è un altro solidissimo argomento in favore delle veridicità del “Titulus”. La successione delle tre lingue nel¬l'iscrizione lignea è: ebraico (o aramaico), greco e latino. Mentre nel Vangelo di Giovanni parlano, nell'ordine, di ebraico, la¬tino e greco. Luca invece parla di greco, latino ed ebraico. Al tempo della scoperta di Elena i Vangeli era¬no largamente diffusi ed entrambi i due primi codi ci evangelici, il Sinaitico e il Vaticano, presentano la versione giovannea e lucena. “È superfluo dire – osserva Thiede – che un falsario mirante a ingraziarsi Elena o la comunità cristiana di Gerusalemme avrebbe seguito la sequenza adottata da uno dei due Vangeli. Un manipolatore che volesse dare l'apparenza di autenticità non avrebbe mai inventato una successione contrastante con quella del Vangelo”. Ciò comporta l'assoluta improbabilità che il “Titulus”, venerato oggi a Santa Croce in Gerusalemme, a poche centinaia di metri dalla Basilica di San Giovanni in Laterano, sia un falso.