IL TIMONE – Febbraio 2007 (pag. 26-27)
di Ilaria RAMELLI
Ci sono impressionanti conferme indirette della veridicità dei Vangeli. Si trovano nei testi di autori pagani. Che alludono anche agli Apostoli.
I resoconti evangelici relativi alla Passione e alla Resurrezione sembrano essere stati noti non solo a Petronio e a Caritone di Afrodisia (come illustravo su il Timone n. 55), ma anche a due poeti latini di fine I – inizi II sec., il satirico Giovenale e l’autore della tragedia Ercole sul monte Eta, pervenutaci nel corpus di Seneca ma probabilmente dovuta a uno Stoico suo imitatore. In essa, infatti, il mito di Ercole morente e assunto in cielo è ripresentato con alcune particolari alterazioni rispetto alle attestazioni precedenti: e precisamente in esse sembra accostarsi alle narrazioni della morte e resurrezione di Cristo. Ad es., a differenza di quanto accade nel modello greco, le Trachinie di Sofocle, il poeta enfatizza il rapporto tra Ercole e il suo divino padre, Giove, con frequenti vocativi rivolti al pater, termine che nel corso della tragedia diviene esclusivo, mentre nel modello latino, l’Ercole furioso di Seneca, sono preferiti genitor e sator (generatore) e comunque non si ha una simile insistenza sul binomio Ercole-Giove pater.
La madre, come la Madonna, rimane accanto al figlio durante la sua passione, la quale è rappresentata gloriosa, come conferma la trasfigurazione del volto di Ercole al verso 1726. Ercole, diversamente da quanto si ha nelle Trachinie, sul luogo della passione teme di essere stato abbandonato da suo padre Giove e se ne affligge profondamente, come Gesù. Inoltre, ai versi 1340 e 1472 è ripetuta la frase peractum est, «tutto è compiuto», la stessa di Gesù, in riferimento alla vita e al destino di Ercole. In prossimità della morte, l’eroe prega il suo padre divino in questi termini: «Ti prego, accogli questo mio spirito in cielo», e al momento della sua morte calano innaturalmente le tenebre e si ha un terremoto, come nel Vangelo. Sono tutti particolari assenti nelle versioni precedenti del mito, e al contempo trovano evidenti paralleli nelle narrazioni evangeliche, come pure il fatto che, nella tragedia pseudo senecana, Ercole muore veramente e la madre ne tiene in mano i resti, mentre nel mito precedente si aveva solo una morte apparente, dimostrata dalla vana ricerca delle ossa dell’eroe.
La scena giovannea della Maddalena con il Risorto presenta somiglianze impressionanti con quelle della tragedia in cui la madre di Ercole, dopo la sua morte, piange disperata, quando improvvisamente ode la voce del figlio che le domanda, come Gesù, perché pianga: «Donna, perché piangi?» e le rivela di essere vivo e di aver guadagnato il regno del cielo, in quanto ha sconfitto la morte per la seconda volta (tempo prima, l’aveva già vinta una prima volta, resuscitando Alcesti, ossia riconducendola su dall’Ade: un episodio letto dai Cristiani in chiave di praeparatio evangelica, come del resto molti altri della figura di Ercole, figlio del summus deus e vincitore del male e della morte). Alcmena, che dapprima è incredula, tenta di trattenere Ercole, che però glielo vieta, ricordandoci il noli me tangere di Gesù alla Maddalena, e passa dall’incredulità alla fede grazie all’apparizione di Ercole, veramente morto e veramente asceso al cielo: «Sei dio e sei, eterno, in cielo: credo al trionfo tuo sulla morte». E la donna si accolla la missione di andare a proclamare il nuovo dio (numen).
Nel coro finale Ercole è presentato come un dio che condivide i poteri del padre, inclusa la prerogativa di Giove di scagliare la folgore della giustizia. I riscontri con i Vangeli colpiscono; la tradizione giovannea offre i paralleli più stretti, soprattutto con il peractum est, con la presenza della madre sul luogo della passione e con l’incon-tro tra la donna e il Risorto.
Come già avevo spiegato nel mio articolo su Petronio e Caritone, i riferimenti ai Vangeli in un autore della fine del I secolo contribuiscono a sostenere la datazione alta dei Vangeli e perciò la loro veridicità: la loro stesura avvenne dunque mentre erano ancora vivi alcuni dei testimoni oculari degli eventi della vita di Gesù, che avrebbero potuto smentire i Vangeli se fossero stati falsi, cosa che non fecero. Precisamente un episodio della fine del I secolo nella vita dello stesso evangelista Giovanni sembra noto ad un poeta pressoché contemporaneo, Giovenale, la cui Satira IV, relativa a un enorme pesce fatto cuocere da Domiziano dopo aver consultato il Senato, potrebbe alludere al processo di san Giovanni a Roma sotto Domiziano e alla sua immersione in un calderone d’olio bollente attestata da Tertulliano e da Gerolamo, nonché dalla tradizione successiva. Uscito indenne dal supplizio, Giovanni fu esiliato a Patmo, dove scrisse l’Apocalisse.
Il pesce, notoriamente simbolo cristico (per l’acrostico formato dal suo nome greco corrispondente a «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore»), nella satira di Giovenale è enorme, il che si capisce se deve rappresentare un uomo, ed è detto «straniero», come straniero era Giovanni a Roma; è «cosa appartenente al fisco», ed è pescato in un luogo pieno di delatori, quando sotto Domiziano erano molto diffuse le delazioni a carico dei Cristiani e relative al fiscus ludaicus.
Il «pesce» è subito condotto al cospetto di Domiziano, il quale lo processa in quanto pontifex maximus che pretende di avere «un potere pari agli dèi»: dunque il processo è per un delitto religioso, quale era l’essere cristiani a Roma all’epoca di Domiziano, probabilmente da quando un senatoconsulto del 35, presieduto da Tiberio, ma in contrasto con il suo volere, aveva fatto del Cristianesimo una superstitio illicita, e soprattutto da quando Nerone aveva reso operativo questo senatoconsulto, togliendo il veto posto da Tiberio per evitare le condanne dei Cristiani. Dopo aver convocato il Senato per il processo ufficiale, Domiziano stabilisce che il pesce debba essere gettato in un profondo ed enorme recipiente di terracotta e fatto cuocere. Allo stesso modo anche Giovanni, sotto Domiziano, fu giudicato e condannato per un giudizio religioso e gettato in un calderone e fatto cuocere.
Del resto, Giovenale conosceva bene i Cristiani e le persecuzioni di Nerone e di Domiziano ai loro danni: il «calvo Nerone», con cui egli definisce Domiziano al verso 38, ricorda il dimidius Nero o «mezzo Nerone», con cui lo qualifica Tertulliano nell’Apologetico, V 5. Inoltre Giovenale, alla fine della stessa satira IV, critica Domiziano per aver mandato a morte il senatore M. Acilio Glabrione, che era cristiano, e nella satira I, versi 155-157, allude con ogni probabilità ai Cristiani quando parla di condannati che, sotto Tigellino, erano impalati e uccisi nell’arena, e usati come torce umane, esattamente come lo erano stati i Cristiani durante la persecuzione di Nerone (lo sappiamo da Tacito, Annali, XV 44).
Sembrerebbe dunque che i letterati pagani contemporanei alla stesura dei Vangeli abbiano recepito molto presto le narrazioni cristiane relative sia a Gesù sia agli Apostoli, e le abbiano rielaborate, in forma più o meno allusiva, nei loro scritti.