IL TIMONE – Maggio 2008 (pag. 52-53)
di Marco Respinti
La lotta per la sopravvivenza (soprattutto a se stessa) che contraddistingue l'ipotesi evoluzionistica sull'origine e lo sviluppo della vita sulla Terra conta i suoi morti, i suoi feriti e i suoi sopravvissuti. Persino i suoi necessari parricidi. È stato solo così, per esempio, che le ipotesi formulate dal naturalista francese Jean-Baptiste Pierre Antoine de Monet cavaliere di Lamarck (1744-1829), più noto come Jean-Baptiste Lamarck, per il quale gli organismi viventi sono il risultato di un processo graduale di modificazione determinato dalle condizioni ambientai i, sono sopravvissute in spirito alla soppressione materiale che ne ha operato Charles Robert Darwin (1809-1882).
Per il naturalista inglese, infatti, Lamarck aveva visto giusto, epperò riteneva troppo passiva quella sua idea che all'opera vi fossero solo le condizioni ambientali. Vi aggiunse allora "caso e selezione naturale", ma nella più palese delle contraddizioni logiche: se "selezionare" significa "scegliere", infatti, con la casualità come la mettiamo?
Darwin "uccise" insomma il proprio "padre" Lamarck onde portarne meglio sugli scudi le infondate teorie che poi spacciò come una scienza che nessuno mai avrebbe potuto, da quel momento in poi, contestare. Ma non fu così.
Accadde un dì in Moravia, ai tempi dell'impero austroungarico, fra le pareti di un monastero; anzi, fra le mura di recinzione dell'orto annesso al ceno bio di san Tommaso a BrOnn, oggi Brno. Accadde che l'abate Johann Mendel (in religione Gregor, da quando era entrato nell'ordine dei benedettini) mandò a gambe all'aria quelle strampalate ipotesi. Nato nel 1822 da una famiglia contadina di lingua tedesca in territorio ceco, Johann aveva lavorato sin dall'infanzia come giardiniere. Nel 1843 entrò in monastero, nel 1847 ricevette gli ordini sacerdotali, poi nel 1851 s'iscrisse all'Università di Vienna. Completati gli studi, tornò all'abbazia, era oramai il 1853, come professore di Fisica, di Matematica e di Biologia. Insegnò, ma soprattutto continuò a studiare, non smise mai di studiare, e a osservare, non smise mai di osservare. E pure sperimentò, non smise mai nemmeno di sperimentare, quel bravo monaco, come invece non fa la stragrande maggioranza degli evoluzionisti gonfi delle proprie presupposizioni ideologiche, o come malauguratamente fa una certa cricca di medici (al cospetto dei quali non solo Ippocrate ma pure Frankenstein si vergognerebbe…).
Un giorno l'umile ma acuto abate, seguendo i propri interessi botanici (erano le piante, dopo Dio, la seconda passione della sua vita), si mise a coltivare piselli. Ne coltivò un numero enorme, e li osservò accuratamente uno a uno. I piselli facevano al caso suo. I piselli sono infatti vegetali particolarmente adatti agli studi che piacevano a Mendel, e questo perché i loro fenotipi (la "totale manifestazione fisica di un organismo", come dice il manuale) presentano caratteri costanti e definiti. Ne selezionò, di piselli, 22 varietà differenti, quindi si concentrò su sette paia che mostravano caratteristiche opposte, cioè fra l'altro facili da distinguere a occhio nudo (e la cosa è importantissima, giacché, come osserva costantemente il genetista antievoluzionista Giuseppe Sermonti, la moderna biochimica evoluzionistica pensa di salvarsi rifugiandosi nell'infinitamente piccolo e per definizione un po' oscuro, e si dimentica però di guardare in faccia gli animali e le piante in carne, ossa e clorofilla).
Incrociando le diverse specie di piselli, Mendel osservò che la prima generazione nata dopo gl'incroci era composta da individui uniformi, laddove quelle successive presentavano mutazioni rispondenti a precise proporzioni matematiche. Matematiche: oggettive e calcolabili, due più due fa quattro, e di qui non si scappa. Osservò pure che ciascuno dei caratteri presentati dai nuovi individui di piselli veniva trasmesso ai discendenti in modo indipendente, e questo perché determinato da un fattore che gli era proprio, suo e non seriale, allora come oggi, come sempre.
È così che Mendel, osservando la realtà e lasciandosi realisticamente ammaestrare da essa, descrisse e scrisse una legge, quella famosa dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti: negli esseri viventi esistono unità indipendenti ed ereditabili, e l'ereditarietà è un andamento determinato dalle diverse combinazioni di codeste unità indipendenti. Non c'è caso, non c'è selezione naturale. C'è invece un corso e ricorso regolare, descrivi bile con moduli matematici, che si svolge seguendo una logica ferrea.
Ora, le leggi scoperte da Mendel nel comportamento dei piselli messi al mondo dal buon Dio in quell'orto della provincia imperiale del tempo che fu sono nientepopodimeno che la base, certa e matematica, della genetica moderna. Tutto parte da lì, dall'orto dell'abate, solo che il buon abate non se ne accorse.
Nel 1865 egli rese infatti sì pubbliche le proprie scoperte, fra stupore e meraviglia, nel corso di due riunioni svoltesi alla Società di Storia naturale dell'allora Brunn, ma la cosa restò confinata agli addetti ai lavori. Nessuno ne intuì la grandezza. Lo stesso Mendel, fatto ritorno al monastero, se ne occupò solo a titolo personale, e aveva pure una comunità da mandare avanti, e certe questioni anche burocratiche da sbrigare, e così via. Nel 1884 si portò insomma la scoperta nella tomba.
Successe però che un naturalista, Hugo de Vries (1848-1935), occupato in studi analoghi a quelli che avevano appassionato Mendel, venne fortuitamente a sapere, nel 1900, lunghi anni dopo, delle scoperte dell'abate. Per caso, direbbe Darwin, ma il caso non esiste. Di più: in quello stesso 1900 prima il botanico tedesco Karl Erich Correns (1864-1933), poi l'agronomo austriaco Erich Tschermak (1871-1962) pervennero ad analoghe conclusioni. A quel punto, il mondo era bene sapesse, il mondo doveva sapere. E così fu. Erano però trascorsi ben 35 anni da quando il pio e scientifico abate aveva penetrato un poco di più lo schema del reale così come il buon Dio lo aveva fatto in barba alla barba di Darwin. Era tardi, ma a quel punto il darwinismo non poté che tremare, di sdegno e di paura. L'abate aveva infatti scoperto che, nonostante le opinioni nutrite dagli uomini in materia, la trasmissione ereditaria dei caratteri nei viventi avviene indipendentemente dall'ambiente e dal corpo di un determinato individuo. E questa era scienza, cioè conoscenza certa ottenuta per via galileianamente sperimentale, non ipotesi filosofica.
Quando, nel 1953, tre ricercatori uno più assurdo dell'altro, uno persino un po' eugenista, un altro che piuttosto che credere a Dio credeva agli alieni, scoprirono il DNA, venne trovato anche l'agente responsabile della legge ereditaria descritta da Mendel, l'acido desossiribonucleico. Il genetista statunitense James Dewey Watson (nato nel 1928), il biologo britannico Francis Henry Compton Crick (1916-2004) e il biologo molecolare pure britannico Maurice Hugh Frederick Wilkins (1916-2004) ci vinsero il Premio Nobel; avrebbero dovuto dedicarlo a Mendel quel Nobel.
Ora, dopo Mendel, l'evoluzionismo darwiniano chiamiamolo classico è entrato in crisi profonda, fermato dalla scienza esso che scienza non è pur fingendo di esserlo. Così ha cercato un riparo. Per non soccombere si è riciclato, per non morire ha abbandonato la paleontologia e si è gettato nei materiali citoplasmatici. Ma non è mai riuscito a battere le leggi di Mendel; oggi combatte battaglie importanti ma di retroguardia, e sfida su questo o quel punto specifico su cui la ricerca deve ancora fare luce piena. L'impianto generale descritto da Mendel rimane però per esso un ostacolo insormontabile. Ovvio quindi che pure certi evoluzionisti di fama vadano oggi sempre più cauti nel dire "caso" e "selezione naturale", benché altri estremisti altrettanto di fama, ciechi e sordi a ogni dimostrazione veramente scientifica, continuino imperterriti a martellare il proprio credo fideistico e irrazionale nel darwinismo.