«Se l’opera di Desideri fosse stata pienamente conosciuta fino dal Settecento, oggi senza dubbio parleremmo dell’autore come d’un Marco Polo, d’un Cristoforo Colombo dello spirito» scriveva Fosco Maraini, in un articolo uscito sul quotidiano «La Nazione» di Firenze il 16 dicembre 1984, in occasione del terzo centenario della nascita del gesuita pistoiese. Trecento anni fa, il 18 marzo 1716, «alla vigilia del glorioso patriarca san Giuseppe, col favor divino», si legge nel suo diario di viaggio, Ippolito Desideri arrivava a Lhasa; è stato il primo missionario a studiare a fondo usanze e cultura di quelle popolazioni lasciandone memoria nei suoi scritti. Era partito da Roma il 9 settembre del 1712, prima ancora di aver terminato il regolare corso di studi, e dopo un viaggio avventuroso, per mare e per terra, arrivò nella città «del terzo e massimo Tibet», che descrive come «molto popolata di gente naturale di que’ Paesi e da grandissimo numero di forestieri: tartari, cinesi, moscoviti, armeni che v’esercitano mercanzia».
Il viaggio si snodò da Goa, la Roma dell’Oriente, centro di irradiazione del cristianesimo nell’Asia meridionale e orientale, a Delhi, Lahore, Srinagar in Kashmir con il difficile superamento dei monti Pir Panjal, primi contrafforti della catena himalayana; poi per le impervie giogaie montane del Karakorum solcate dalle acque dell’Indo e dei suoi affluenti, giunse a Leh, in Ladakh, e, infine, nella capitale del Tibet, dopo una lunghissima ed estenuante traversata delle gelide solitudini dell’altopiano transhimalayano.
In questi regni «il letto è la terra» annota con semplicità Desideri, che si abitua presto a bere con gusto «il the conciato col butirro» alla maniera dei tibetani. L’altitudine e i sentieri impervi non lo preoccupano quanto «il passar così sovente un gran numero di torrenti ben afferrato alle corna d’un bue». Il diario di viaggio è ricco di osservazioni acute e personali, a tratti decisamente liriche, rese sempre con stile letterario limpido ed espressivo.
È impossibile — chiosa Fosco Maraini nel suo articolo — non restare ammirati dall’entusiasmo, dalla perseveranza, dalle doti intellettuali del Desideri, qualità che gli permisero d’impadronirsi in breve tempo di una lingua difficilissima, per lo studio della quale mancavano dizionari, grammatiche e ogni altro ausilio del genere. «In più — continua Maraini — v’era l’ostacolo di un sistema di scrittura complesso e capriccioso, a quei tempi tutto da scoprire. Sappiamo dai documenti autografi lasciatici, che Desideri non conosceva solo il tibetano, diciamo, “da bazar”, quanto basta per viaggiare e per le necessità giornaliere di vita; era arrivato a un livello che gli permetteva di discutere di religione e di filosofia coi lama più dotti, addirittura a un livello che gli permetteva d’esporre per iscritto il suo pensiero nella speranza di poter interessare, e forse influenzare, i propri lettori». Una parte della sua prima opera in tibetano, intitolata Torans, L’Aurora, è in versi. Fu questo il lavoro che presentò a Lhabzang Khan, sovrano temporale del Tibet. Il re lo lesse con molta curiosità, tanto da porre poi molte domande a quello che chiamava “il Lama venuto dall’Occidente”.
I tempi però erano agitati; Lhabzang Khan, coinvolto nella guerra tra tibetani e mongoli, venne ucciso. Desideri restò in Tibet ancora quattro anni. In questo periodo, rifugiato in un monastero buddista, scrisse altre opere importanti, sempre in tibetano: il Gning-po, L’Essenza, sottinteso «del cristianesimo», il Chung-Kung, L’Origine, sottinteso «di tutte le cose», e uno studio di ampio respiro sulla metempsicosi. «La vasta originalissima penetrante opera apologetica del Desideri — continua Maraini — sarebbe di sicuro fiorita in pieno, portando ad un avvicinamento audace, prodigioso per i tempi, tra san Tommaso d’Aquino e Tsong-Khapa».
Scorrendo la biografia di Desideri si capisce il perché del condizionale. Ben presto, a causa di una contesa tra ordini religiosi “concorrenti” nella missione, gli venne chiesto di lasciare Lhasa. Dopo aver cercato di temporeggiare per un po’, decise di obbedire. Morirà non ancora cinquantenne senza essere riuscito a rendere pubbliche le sue straordinarie scoperte.
Le carte di Desideri non furono capite da chi gli sopravvisse, e restarono sepolte, dimenticate in vari archivi, a Roma e a Pistoia, fino agli ultimi decenni dell’Ottocento. Il danno per gli studi orientali fu immenso. «La negligenza di coloro che ereditarono i manoscritti di Desideri — scrive Henri de Lubac nella sua opera Incontro del Buddismo e dell’Occidente — ha privato a lungo l’Europa d’una sorgente preziosa». La sua relazione sul Tibet fu resa nota al gran pubblico solo nel 1904, quando l’orientalista fiorentino Carlo Puini ne pubblicò gran parte nelle Memorie della Reale Società Geografica Italiana. Un altro fiorentino, Filippo De Filippi, presentò gli scritti di Desideri al mondo anglosassone nel volume An Account of Tibet (Londra, 1931).
La sua città natale, Pistoia, capitale della cultura 2017, lo ricorderà con una serie di eventi organizzati da Enzo Gualtiero Bargiacchi che alle opere del gesuita ha dedicato un sito web (www.ippolito-desideri.net), scritti, studi e documentari (l’ultimo, realizzato dal regista Massimo Prevedello).