Di cosa parliamo veramente quando parliamo di diritti civili? Quando si combatte una battaglia sarebbe bello farlo in modo leale. Il mondo Lgbt per la sua crociata ha deciso di puntare sul piagnisteo, usando l’espressione “diritti civili”. Usurpando un’espressione che nell’immaginario collettivo richiama immediatamente le lotte degli afroamericani, quelle sì, per i diritti civili, il movimento Lgbt compie però una profonda scorrettezza ideologica. I diritti civili, cioè le libertà di pensiero, espressione, associazione, elettorato non sono negati a nessun cittadino italiano, mentre l’oggetto delle richieste che ruotano intorno alla Cirinnà è tutto un altro. Lo ha capito qualsiasi osservatore onesto e sano di mente, lo ha dichiarato il Senatore Lo Giudice per esempio a “Le Iene” qualche sera fa: quello che vogliamo veramente è cambiare la visione sociale dell’omosessualità. Per poco non cadevo dalla sedia quando l’ho sentito ammettere a viso aperto, e da colui che della legge Cirinnà potrebbe essere, a occhio e croce, l’ispiratore.
Ora, questo mi sembra un obiettivo onesto, qualcosa che ha un nome chiaro; sarebbe stato leale ammetterlo fin dall’inizio. Adesso che le carte sono scoperte ci si può confrontare a viso aperto, e senza vittimismo.
Lei, Senatore, e tutti quelli che la pensano come lei, non state chiedendo qualcosa che vi è crudelmente negato, perché i diritti civili e individuali e anche quelli dei conviventi ce li avete già tutti. Voi volete cambiare l’idea collettiva su di voi, e volete farlo per legge. Siate uomini, allora: non trinceratevi dietro l’espressione vigliacca e disonesta dei diritti civili. Qui Rosa Parks non siete voi. I neri che non possono sedersi in autobus qui sono i bambini. Come quello che vi siete procurato in cambio di centomila dollari, lo ha detto lei a “Le Iene”, privandolo della mamma. Rosa Parks non siete voi: non vi viene vietato l’accesso al bagno dei bianchi, ma semplicemente proibito di fare una cosa illegale e crudele, che con la Cirinnà pretendete di ratificare ex post (dichiararvi padri o madri di un figlio non vostro senza passare dal tribunale come tutti i genitori aspiranti adottivi).
Di cosa parliamo veramente, dunque, quando parliamo di diritti civili? I diritti dei conviventi già oggi garantiti in Italia non si interessano minimamente al sesso delle persone: ometterei qui il noioso elenco, ma insomma i conviventi possono andare a trovarsi all’ospedale, chiedere permessi retribuiti per assistersi, succedere nella locazione e molto molto altro. I diritti già ci sono, ma agli omosessuali molto raramente interessa codificare la loro unione, che è tendenzialmente meno stabile di quella tra due di sesso diverso: lo conferma il fatto che in tutti i paesi in cui il mariage pour tous è legge è stato un flop, e anche noi il nostro floppino lo abbiamo avuto, perché i registri delle unioni che sono in tanti comuni italiani sono pressoché vuoti: solo duemila le unioni, otto nella trasgressiva Bologna. La casetta col tinello e la benedizione del sindaco non rientra nelle aspirazioni di un numero significativo di coppie omosessuali. Magari va bene così, a volte il disordine interiore – così il Catechismo – che si esprime anche con l’omosessualità, può anche diventare energia creativa – è più spesso dal dolore che noi umani traiamo energia per dire delle cose. Chi vorrebbe vedere Michael Cunningham o Baudelaire o Pasolini o Proust o Capote coi fiori d’arancio nelle foto coi servizi di piatti? Ma perché noi, popolo del Family Day continuiamo a dire non solo che siamo contro l’utero in affitto, il minimo sindacale per un essere umano, ma anche contro qualsiasi legge sulle unioni civili?
Esattamente per lo stesso motivo dell’Arcigay. E’ la percezione sociale che interessa anche a noi, consapevoli anche noi come quelli dell’Arcigay che una legge fa mentalità, contribuisce a educare e formare coscienze. In gioco dunque c’è prima di tutto la base condivisa e collettiva di una società. In gioco c’è il destino collettivo dell’uomo, e solo, esclusivamente, rigorosamente in questo campo, non sui sentimenti, lo Stato può avere voce in capitolo, perché il matrimonio “non è un contratto di coabitazione – scrive Scruton – ma un voto di unità”. La sua base è erotica, ma la sua funzione “assicura la riproduzione sociale, la socializzazione dei bambini e il passaggio del capitale sociale. Questi processi, che danno un appagamento all’unione sessuale e sono un modo di andare oltre i suoi parchi imperativi nel regno del dovere, dell’amore e dell’orgoglio, si produrrebbero difficilmente senza il matrimonio”.
Ma c’è anche il destino degli individui. C’è il desiderio per il vero bene delle persone con tendenza omosessuale, che questo vero bene faticherebbero ancora di più a trovarlo in una società che promuovesse a valore collettivo il desiderio individuale, una società che usa i loro sentimenti per uno scopo politico, ingannando innanzitutto loro sulla condizione che vivono e quindi inchiodandoli e riducendoli a essa.