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Dominique Velati e l’eutanasia: l’assurdo di tutta la faccenda sta nel darsi la morte
NEWS 28 Dicembre 2015    

Dominique Velati e l’eutanasia: l’assurdo di tutta la faccenda sta nel darsi la morte

di Marco Respinti

 

Amo la libertà perché è ciò che mi rende simile a Dio. Per questo temo come il demonio chi bestemmia la mia umanità chiamando libertà la morte. Per esempio i Radicali Italiani che hanno aiutato la loro militante storica, Dominique Velati, a raggiungere la morte in Svizzera. Dominique non era una malata terminale. Ha scelto la morte perché ha ritenuto che affrontare la malattia sarebbe stato più difficile. Di Dominique non voglio parlare. Voglio invece parlare di chi le è stata attorno, anzi addosso. Di chi le ha detto che morire è meglio che vivere. Di chi l’ha convinta a morire. Di chi l’ha spinta a morire. Di chi l’ha aiutata a morire. Di chi ha pagato il suo morire. Di chi, in un nanosecondo che non tornerà mai, ha avuto la possibilità unica di consigliarla e ha deciso d’indicarle solo la morte.

L’assurdo supremo di tutta la faccenda sta infatti proprio nell’oggetto, il darsi la morte. Cosa ne è stato dell’uomo perché egli si sorprenda a discettare della bontà dell’uccidersi? Cosa è successo perché l’uomo abbia smarrito il naturale istinto a percepire a fiuto dove sta il bene e dove sta il male? Cosa è accaduto perché l’uomo non sia più disposto a consolare, aiutare e affermare la positività intrinseca della vita nonostante le prove estreme a cui la vita chiama? Che qualcuno abbia perso il senso del dolore e il significato della sofferenza è possibile, persino comprensibile; ma è possibile, anzi comprensibile che attorno a un infelice così nessuno sappia più pronunciare una parola diversa da “morte”?

Come siamo arrivati, uomo, a questo punto? Com’è successo che il bianco sia diventato nero, che l’evidenza abbia bisogno di essere dimostrata, che nemmeno più la vita conti? Davvero il quieto vivere delle nostre coscienze narcotizzate è disposto a riverire la morte pur di non assumersi la responsabilità di contrattaccare la sofferenza, di combattere il dolore, di duellare con la solitudine? Davvero siamo al punto che vivere o morire non fanno più differenza? Di tanto in tanto, le invertebrate cronache quotidiane si eccitano alla vista delle Eluana Englaro, dei Piergiorgio Welby e delle Dominque Velati sbranati dalle belve del circo; è l’attimo fuggente in cui anche l’ultimo dei somari pensa di essere il re dei talk-sciò, abbandonandosi a pensieri sconci di “individualismo” e “libertà”. Ma è pornografia. Perché altro non siamo che schiavi paganti del socialismo reale più riuscito di sempre, viviamo nel falansterio degli yesmen, usciamo solo con l’ombrello e lo facciamo esclusivamente per andare dove ci porta il manovratore. I nostri confessionali sono i pomeridiani televisivi delle massaie, i nostri psicologi la posta dei lettori, le nostre idee quelle di tutti gli altri. Siamo tutti Radicali, inutile negarlo. L’eutanasia è la “morte buona” che si regala per pietà al prossimo ingombrante perché sta scritto nei biscottini della fortuna. Il coraggio spavaldo dell’anarca è scomparso, l’anarca che vomita sulla vita ridotta a contratto di locazione, a cambiale protestata, a carta bollata per il conformismo. Prima o poi i Radicali ci daranno l’eutanasia legale. Quel giorno le nostre orecchie sanguineranno per le troppe volte che udiranno la parola “libertà”. Forse avremo ancora un breve attimo per vergognarci. Poi la nostra civiltà scomparirà, come diceva T.S. Eliot, non con uno schianto, ma con un lamento.