Quando, nel IV secolo, la sede episcopale di Milano si rese vacante, Ambrogio, ancora neofita e prefetto della città, fu eletto vescovo da quel popolo che, agitato per l’elezione, era andato a sedare. Battezzato, ordinato presbitero e poi vescovo, Ambrogio difese la Chiesa dalla falsa scienza degli Ariani, opponendo con la sicurezza della sua dottrina un valido baluardo ai progressi dell’errore del tempo.
Per la fermezza intransigente dei suoi scritti e delle sue parole, per la strenua difesa dell’unica verità che salva e della libertà della Chiesa, la sua vita fu minacciata più volte dai seguaci dell’eresia da lui combattuta. Ma egli non temeva, perché – scrive Don Guéranger – «per difendere l’eredità della Chiesa era pronto a versare il sangue». Alcuni cortigiani ardirono accusarlo di tirannide presso il principe. Rispose: «No, i vescovi non sono tiranni, ma piuttosto da parte dei tiranni essi hanno dovuto spesso soffrire persecuzioni».
L’eunuco Calligone, ciambellano di Valentiniano II, osò dire ad Ambrogio: «Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo». «Che Dio te lo permetta! – rispose Ambrogio. «Io soffrirò allora ciò che soffrono i Vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi». Tale era Ambrogio di Milano. Come tutti i veri Santi, sapeva coniugare perfettamente dolcezza e fermezza, amore alla verità e condanna dell’errore, o – in breve – giustizia e misericordia. Emblematico a tal riguardo fu il suo singolare rapporto con l’imperatore Teodosio, di cui Ambrogio fu grande amico e personale consigliere.
Grazie all’Editto di Milano con cui, nel 382, proclamò il Cristianesimo religione di Stato, Teodosio è considerato l’imperatore cristiano per antonomasia. Oltre a ciò, godeva della speciale stima del Vescovo di Milano perché testimoniava senza reticenze la sua fede anche sotto le insegne imperiali. Ma nel 390 le truppe dell’imperatore soppressero una rivolta uccidendo oltre 7000 persone in quella che è passata alla storia come la strage di Tessalonica. Di questo atto esecrando Ambrogio ritenne responsabile lo stesso Teodosio, al quale si narra abbia vietato l’ingresso in chiesa intimandogli di pentirsi e di fare penitenza.
Ambrogio non era un uomo intransigente. «Non sempre bisogna infierire contro quelli che hanno peccato – aveva scritto – ; spesso la clemenza giova di più: a te ad acquistare pazienza, e al peccatore a correggersi» (In Lucam 7, 27). E neppure amava farsi censore delle autorità. Anzi, affermava che non si debbono riprendere se non in casi gravissimi. «Guarda – scriveva – che i re non devono essere temerariamente attaccati dai profeti di Dio e dai sacerdoti se non ci sono peccati molto gravi di cui debbano essere accusati; laddove ci sono, allora non si deve scusare ma correggere con giusti rimproveri» (Commento al Salmo 37, 43). Fu appunto il caso di Teodosio dopo il massacro di Tessalonica. E proprio in quel frangente Ambrogio riesce a congiungere l’esigenza della riparazione al perdono del peccato mediante quella discrezione cristiana che solo i veri Pastori sanno esercitare.
Nella lettera che scrisse a Teodosio nel 390 per esortarlo alla penitenza si legge: «Ti scrivo non per umiliarti, ma perché gli esempi dei re ti spingano a cancellare dal tuo regno questo peccato. Lo cancellerai umiliando la tua anima davanti a Dio». «Non ho verso di te alcun motivo di ostilità, ho timore: non oso offrire il Sacrificio se tu pretendessi assistervi». Era un modo indiretto ma chiaro per dire a Teodosio che non poteva accedere al Sacramento dell’Eucaristia. Un sogno gli aveva confermato la necessità di tale divieto: «Non da un uomo né attraverso un uomo, ma direttamente mi è stata rivolta questa proibizione. Mentre, infatti, ero preoccupato, la stessa notte in cui mi preparavo a partire mi è sembrato che tu (Teodosio) venissi in chiesa, ma a me non fu possibile offrire il Sacrificio».
Lo esorta allora alla preghiera, che può essere un’offerta umile e a Dio molto gradita: «Anche la semplice preghiera è un sacrificio: genera il perdono poiché contiene l’umiltà (…). Infatti, Dio dice che preferisce che si osservino i suoi comandamenti più che l’offerta del sacrificio. Questo proclama Dio, questo Mosè annuncia al popolo, Paolo predica alle genti. Fa’ ciò che al momento capisci essere più gradito. “Preferisco”, dice Dio, “la misericordia al sacrificio”. Non sono forse più cristiani quelli che condannano il loro peccato di quelli che credono di doverlo giustificare?». E se pure vi fossero peccati che non possono essere lavati con le lacrime del proprio pentimento – scriverà in altra occasione Ambrogio con memorabile eloquenza – «piangerà per te la madre Chiesa, che interviene per ciascuno come una madre vedova per il figlio unico. Essa, infatti, prova compassione, per una specie di connaturato spirituale dolore, quando vede i suoi figli avviarsi alla morte per dei vizi mortali» (In Lucam 5, 92).
Teodosio obbedì al Pastore del quale poi disse: «Non c’è che un vescovo al mondo: Ambrogio». E il suo sincero pentimento gli meritò da parte del Vescovo di Milano un tal plauso come pochi se ne leggono negli annali della storia: «Sì – disse il santo Vescovo nell’elogio funebre dell’imperatore –, ho amato questo uomo che preferì ai suoi adulatori colui che lo riprendeva. Gettò a terra tutte le insegne delle dignità imperiali, pianse pubblicamente nella Chiesa il peccato nel quale lo si era perfidamente trascinato, e ne implorò il perdono con lacrime e gemiti. Semplici cortigiani si lasciano distogliere dalla vergogna, e un imperatore non ha arrossito di compiere la penitenza pubblica, e da allora in poi non un sol giorno passò per lui senza che avesse deplorato la sua mancanza».
Ambrogio ebbe vivissimo il senso del peccato perché aveva compreso a fondo la misericordia di Dio. A tal punto da fare della misericordia l’unica chiave per comprendere l’eterno piano salvifico di Dio. «Sant’Ambrogio – scrive il Cardinal Biffi – è sicuro che l’uomo deve essere salvato; il suo è un ottimismo teologico che non ignora affatto il peccato e la sua gravità. Ma nel suo ottimismo Ambrogio si spinge più lontano di tutti: secondo lui, la stessa nostra miseria nativa fa parte di un progetto di elevazione, sicché c’è, paradossalmente, qualcosa di positivo nella colpa, dal momento che Dio la vede come premessa necessaria alla manifestazione della misericordia, misericordia che per Ambrogio è il senso ultimo e la ragione decisiva di tutta l’azione creatrice».
Nel suo Hexaemeron, Ambrogio aveva scritto: «Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna e le stelle, e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che, a questo punto, si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati». Finalmente Dio aveva trovato quello che voleva, un uomo da poter perdonare. «Da questo – scrive ancora il cardinal Biffi – non si può dedurre che si può peccare, anzi fare quanti più peccati possibile in modo da essere perdonati: al contrario, si deve dedurre la necessità di pentirsi, di fare tanti atti di pentimento in modo che la misericordia del Signore possa arrivare a toccarci. Siamo stati creati per mezzo di Cristo e per mezzo di Cristo siamo stati redenti».
Per questa necessità del pentimento, Ambrogio, quando ascoltava la confessione dei peccatori, versava tante lacrime che costringeva a piangere insieme con lui chi era venuto a confessare le proprie colpe. «Sembrava – scriveva il suo biografo Paolino – che egli stesso fosse caduto insieme con chi era venuto meno». Così pregava, a questo proposito, il grande Vescovo: «Ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi, o Dio, di provarne compassione e di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che mentre piango su un altro, io pianga su me stesso».
Alla cristianità postmoderna che ha smarrito il senso del peccato e pare comprendere solo il linguaggio evanescente di una indefinibile e fluttuante misericordia, Ambrogio di Milano ha molto da insegnare. Ma forse il messaggio più attuale del Santo Vescovo di Milano è dato dall’aver centrato perfettamente l’amore del prossimo, che oggi pare oscurare l’amore di Dio in nome di una sempre più stravagante misericordia. Il nostro “primo prossimo” è il Signore Gesù che non è lontano da nessun uomo, anzi è il più vicino perché è da Lui che riceviamo la misericordia.
«Egli – dice Ambrogio – è il prossimo, il prossimo di tutti: Lui che a tutti elargì misericordia togliendo il peccato del mondo. Gesù, se possiamo concederci una sdrammatizzatura, è il più prossimo. Perciò quando si parla del precetto dell’amore non bisogna mettere in contrasto l’amore per Cristo e l’amore per il prossimo perché in realtà anche l’amore per Cristo è l’amore per il prossimo. Perché Lui è prossimo prima e più di ogni altro. Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore, ma amiamolo anche come prossimo. Niente, infatti, è tanto prossimo quanto il Capo alle membra». È per amore di questo Capo che Ambrogio indusse misericordiosamente Teodosio a penitenza e lo riportò all’ovile dell’unico Pastore.