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Come nel film, cosa nella vita: se Gino Cervi era massone, Fernandel era un cattolico «tosto»
NEWS 17 Settembre 2015    

Come nel film, cosa nella vita: se Gino Cervi era massone, Fernandel era un cattolico «tosto»

di Rino Cammilleri

 

Nel 1953 due distinti personaggi si presentarono al suo albergo romano, dicendogli che Pio XII voleva conoscerlo. Pensò a uno scherzo. Invece era vero: Papa Pacelli aveva visto il film Don Camillo. E saputo che Fernandel era un buon cattolico. Sempre stato.
 
Malgrado la Legion d'Onore e la frequentazione dello star system internazionale, fedelissimo alla moglie, che voleva con sé nelle innumerevoli trasferte. Alle figlie, pur maggiorenni, vietava il rossetto, le gonne troppo corte e il rincasare tardi. Proibì loro anche ogni velleità cinematografica: dovevano studiare e basta. Se c'era da esibirsi gratis per i bambini negli ospedali non diceva mai no.

Due giovani e ingenui sposi francesi volevano far battezzare il loro primogenito a Don Camillo: non ebbe cuore di rivelar loro la verità e pagò di tasca sua la cerimonia.

Fernandel era già celebre anche prima di Don Camillo (1952): invitato a colazione da De Gaulle, intimo delle più grandi star, stimato da Chaplin e conteso dai migliori registi. Il prete di Brescello lo proiettò tra gli immortali di sempre, facendone un'icona.
 
E pensare che quel film, record stratosferico d'incassi (e incassa ancora oggi), fu rifiutato dai cineasti nostrani timorosi di scontentare il Pci: Blasetti, Camerini, De Sica, Castellani, Zampa dissero no. E la regia passò al francese Julien Duvivier. Il bello è che anche Fernandel aveva pensato di rifiutare la parte, pur se per motivi opposti: riteneva irriguardosi i dialoghi col Crocifisso, quasi fosse anche Lui un personaggio della farsa. Ci pensò Guareschi, che era più cattolico di lui, a rassicurarlo.

Don Camillo fu subito un successo planetario, perfino in Thailandia c' era la fila per vederlo. E Fernandel divenne il prete più famoso al mondo dopo il Papa (parole di Pio XII), anche se aveva al suo attivo decine di film in alcuni dei quali aveva recitato in ruoli drammatici (nel 1950, per esempio, fu protagonista di Meurtres insieme a Jeanne Moreau, sul delicato tema dell' eutanasia). Ora un libro di Fulvio Fulvi ce lo racconta: Il vero volto di Don Camillo. Vita e storie di Fernandel (Ares, pagg. 200, euro; prefazione di Tatti Sanguinetti e contributi di Giancarlo Giannini, Pupi Avati, Paolo Cevoli, Alberto Guareschi, più il Sindaco e il Parroco di Brescello).
 
Si chiamava Fernand-Joseph-Desiré Contandin, nato a Marsiglia nel 1903. Il nome d'arte glielo appiccicò la suocera quando la di lei figlia le presentò il fidanzato: «Et voilà le Fernand d' elle!». Quantunque quel giovanotto facesse di mestiere il comico di café-chantant, la donna lo accettò volentieri come genero; diversamente da sua madre, che disapprovò quell' unione per tutta la vita.

Di lontane ascendenze piemontesi, suo padre era un impiegato con l'hobby delle canzonette sposato a una casalinga che, di hobby, aveva quello di recitare in teatro. Fernand prese il vizio di famiglia e cominciò presto, ma coi palcoscenici di provincia non si campava. Provò i mille mestieri, facendosi ogni volta licenziare per inettitudine. Non sapendo fare bene altro che il comico, decise che tanto valeva concentrarvisi. La carriera fu veloce e folgorante. Nel 1928 registrava il suo primo disco a Parigi, recitava a Montparnasse e alle Folies Bergères con Mistinguett.

Nel 1931 era in un film di Jean Renoir e in uno di Augusto Genina insieme a Jean Gabin. Nel 1937 vinceva la coppa Mussolini a Venezia. Con la fama arrivarono i soldi, tanti, e la sontuosa villa fuori Marsiglia. Ma non si montò mai la testa né, come sappiamo, si fece contagiare dallo stile di vita dell' ambiente lavorativo. Vistolo in un film di Claude Autant-Lara, Mario Soldati lo volle in una sua pellicola scritta insieme al gotha degli sceneggiatori italiani: Garinei&Giovannini, Marcello Marchesi, Monicelli, Steno.

E poi venne Don Camillo, di cui il produttore Angelo Rizzoli era così entusiasta da presentarsi continuamente sul set (mentre in quello felliniano de La dolce vita non si mostrò mai). Il famoso Crocifisso, opera dello scultore Bruno Avesani (che gli fece cinque teste con espressioni diverse), oggi sta nella chiesa di Brescello per la gioia dei turisti. L'anno scorso il parroco lo portò in processione al Po, come nel film, per scongiurare la piena.
 
Fernandel morì nel 1971 mentre girava l'ultimo film della saga. Il regista Mario Camerini dovette ripiegare su Gastone Moschin, mentre Lionel Stander faceva Peppone. Fu un prevedibile insuccesso.

Don Camillo era Fernandel e basta. Un giorno, in una pausa, fece due passi fuori dal set e una bambina gli si inginocchio davanti chiedendogli di benedirla. Lui spiegò che era vestito da prete per finta. Lei volle allora che benedicesse la sua piccola e gli tese la sua bambola. Lui ribadì che non era un vero prete. Lei replicò che neanche la bambola era davvero sua figlia.