Zhujiahe è un piccolo villaggio situato nella vasta pianura grigia della Cina settentrionale, al confine tra le province di Zhili e Shandong. Tradotto, il nome significa “fiume della famiglia Zhu”. Diversi membri di quella famiglia si erano convertiti al cattolicesimo durante il XVIII secolo, quando i gesuiti da Beijing si erano inoltrati nella provincia di Zhili. All’inizio del XIX secolo la famiglia Zhu si era stabilita vicino al fiume, dandogli il suo nome. Nel 1900 il villaggio aveva circa 300 abitanti, che vivevano in basse casette di argilla, annidate tra irregolari distese di sorgo e dominate da una chiesa semplice, con il tetto piatto e un’alta facciata; dalla cima di quest’ultima, la croce sovrastava la campagna.
Pastore della comunità cattolica di Zhujiahe era il gesuita francese Léon-Ignace Mangin, quarantaduenne e missionario in Cina sin dal 1882. Nel villaggio era assistito da un saggio di mezz’età, Zhu Dianxuan, abile amministratore e molto versato anche nell’arte della guerra. Sua moglie cinquantenne, Maria Zhu-Wu, era molto stimata dagli abitanti del villaggio: donna gentile di grande fede, nel suo servizio a Dio dava la priorità all’assistenza ai poveri. Senza mai cercare fama né gloria, queste tre persone si sarebbero trovate al centro del massacro di cristiani più violento avvenuto durante la rivolta dei boxer.
Non occorre spiegare qui la storia della rivolta, né le macchinazioni politiche e la guerra che l’avevano innescata. Avevano poca importanza per gli abitanti di Zhujiahe quando, nell’estate del 1900, avevano accolto migliaia di rifugiati cattolici dai villaggi vicini. Ciò aveva portato la popolazione a 3000 abitanti, vale a dire dieci volte più di quelli abituali, quando il 17 luglio furono attaccati da 4500 uomini ben armati, le forze congiunte dei boxer e dell’esercito imperiale. Pochi giorni prima, gli abitanti del villaggio, protetti dalle fortificazioni costruite da Zhu Dianxuan, erano ancora riusciti a respingere gli attacchi e perfino a conquistare un cannone del nemico.
Padre Mangin e il suo confratello gesuita Paul Denn, anche lui rifugiato a Zhujiahe, avevano celebrato la messa ogni mattina e ascoltato confessioni per tutto il giorno; la sera avevano dato il cambio alle guardie sui bastioni. Il giorno seguente, Zhu Dianxuan, l’unico leader esperto tra i mille e più uomini in grado di difendere il villaggio, si arrampicò sui bastioni per usare il cannone contro le forze nemiche. Ma quella sera stessa, quando ormai oltre la metà dei suoi uomini era morta in battaglia, il cannone esplose sul petto di Zhu Dianxuan. Mangin, che si trovava lì vicino, corse dall’uomo morente e gli diede l’estrema unzione. Il terzo giorno, quando la situazione ormai apparve senza speranza, quanti potevano fuggire lo fecero, lasciando indietro chi era troppo debole per farlo, specialmente donne e bambini.
Quando la mattina presto del 20 luglio i soldati presero il villaggio, le prime persone che uccisero furono un gruppo di vergini della parrocchia e di catechiste. Colti dal panico, ottantacinque tra donne e bambini fuggirono verso l’orfanotrofio, dove saltarono nel pozzo, morendovi affogati o soffocati. Pare che il loro pianto e le loro grida si siano sentiti per due giorni.
La maggior parte degli abitanti del villaggio, circa mille, si era rifugiata nella chiesa, assistita spiritualmente dai due sacerdoti gesuiti. Troppo pressati per celebrare un’ultima messa, Mangin e Denn si sedettero sui gradini dinanzi all’altare ad ascoltare confessioni, mentre la maggior parte delle persone era inginocchiata in preghiera o semplicemente attendeva. Maria Zhu-Wu, presumibilmente in lutto per il marito, rimase però calma, esortando tutti a confidare in Dio e a pregare la Madre celeste. Verso le nove del mattino, gli aggressori sfondarono la porta e iniziarono a sparare a caso all’interno della chiesa, fino a quando non fu piena di fumo. Si diffuse il panico mentre la gente veniva uccisa, ma i sacerdoti riuscirono a unirla in preghiera, recitando insieme il Confiteor e l’atto di contrizione, poi diedero l’assoluzione generale mentre le armi continuavano a sparare sulla gente.
Qui Maria Zhu-Wu assurse a particolare grandezza: si alzò e si mise con le braccia tese davanti a padre Mangin per fargli scudo con il proprio corpo. Non molto tempo dopo, una pallottola la colpì ed ella cadde davanti alla balaustra dell’altare. Anche Mangin, sgranando il rosario con una mano e afferrando un crocifisso con l’altra, ben presto cadde vittima degli uomini armati. Poi i boxer sprangarono la chiesa e le diedero fuoco. La maggior parte di quanti si erano rifugiati al suo interno morì a causa del fumo inalato, gli ultimi — tra loro Mangin e Denn — finirono arsi quando, alla fine, il tetto della chiesa crollò. Solo 500 cattolici riuscirono a sopravvivere al massacro fuggendo o apostatando; pochi altri, principalmente donne, furono venduti come schiavi o condotti come prigionieri a Beijing, dove probabilmente finirono in qualche postribolo.
Ma Maria Zhu-Wu continua a vivere a Zhujiahe, il fiume della famiglia Zhu, trasformato in un fiume di sangue. Mentre suo marito aveva difeso il villaggio contro il nemico esterno, lei aveva rafforzato la fede e il coraggio interiore delle persone, sacrificando addirittura la propria vita per salvare il loro pastore. Nel 1955 Pio XII la proclamò beata, insieme ai due gesuiti e ad altri 53 martiri; tutti sono stati canonizzati nel 2000 da Giovanni Paolo II.