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Mentre cresce la voglia di eutanasia, la coscienza del nostro mondo sprofonda sempre più in basso
NEWS 9 Giugno 2015    

Mentre cresce la voglia di eutanasia, la coscienza del nostro mondo sprofonda sempre più in basso

di Mary Bellavista

 

La notizia: la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha stabilito che, se fosse messa in atto, l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione del trentottenne francese Vincent Lambert, che per un incidente d’auto si trova in stato di minima coscienza dal 2008, non violerebbe l’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione sui diritti umani.

Ora si sta scatenando un fitto dibattito in merito alla definizione di eutanasia: in questo caso infatti Vincent non ha manifestato alcun desiderio di morire e le cure che lo tengono in vita non sono di natura medica, ma umana di base: cibo e acqua.

Non mi addentro nelle considerazioni su questo caso, anche perché di gente che dice la propria ce n’è già parecchia (e direi che questo è un bene, perché ogni dibattito sulle questioni fondamentali come la vita e la morte è sacrosanto per il risveglio delle coscienze e l’uscita dal torpore da rana bollita).

Vorrei invece parlare di una persona che ho conosciuto molto bene e che ha subito il triste destino di trascorrere gli ultimi otto anni della sua vita in stato di minima coscienza, come Vincent.

Si chiamava Stefano, era un elettricista bravo, di quelli che risolvevano i problemi che gli altri non sapevano affrontare, un uomo buono come non se ne vedono nel mondo, uno che diceva sempre sì, che dava a tutti, che dava tutto. Poi un giorno si è preso la 10.000 volt in una cabina, non è mai stato chiarito come sia potuto accadere. Cuore fermo per lunghi minuti, ipossia, danni cerebrali irreversibili e l’inizio di un coma vigile di difficile decifrazione. Ci sente? Ci vede? Capisce ciò che gli diciamo? Sente la nostra presenza? Quello sguardo che si muove intorno, cosa capta? Cosa cerca?

Nessuno ha risposto a queste domande, nemmeno i medici, perché la verità è che l’uomo biologico è davvero complesso, il cervello è in buona parte ancora un mistero, la coscienza un mondo che la medicina non ha finito di esplorare. Il fatto che un uomo non possa comunicare in modo compatibile con la nostra capacità di comprendere non significa che non abbia uno stato di coscienza. Chi lo può dire con certezza? Ci sono casi nel mondo di insperati risvegli, di inspiegabili ritorni da coma giudicati frettolosamente irreversibili. Sono pochi e sporadici, ma anche uno solo getta un’ombra inquietante sulla certezza di certi verdetti senza speranza lanciati come proclami.

L’unica cosa che succede sempre è che, laddove la coscienza viene recuperata, il paziente dice subito grazie, ai famigliari che non hanno mollato, ai medici che hanno continuato a curare, a tutti coloro che non lo hanno lasciato morire. Il paziente dice grazie e non maledice mai per avere avuto in dono un altro po’ di vita, magari estremamente malandata e limitata per i danni comunque subiti nel corpo, dice grazie e sorride.

Stefano non si è risvegliato, ma la gente intorno a lui sì: un turbinio di amici e parenti si sono avvicendati al suo capezzale, dapprima per sollecitarlo in tutti i modi al ritorno, poi, man mano che le speranze di un recupero si affievolivano, semplicemente per fargli compagnia, per dare un sostegno alla moglie, per manifestare la propria vicinanza e gratitudine per un uomo che aveva dato tanto a tanti e che avrebbe meritato il miracolo di un risveglio.

Piano piano il suo corpo forte e possente ha cominciato a cedere, e alla fine, senza sorprendere nessuno, come uno scivolamento lento e costante, è morto. Al suo funerale c’era una marea di gente, una folla oceanica. La moglie, dopo 8 anni di veglia al capezzale dell’ombra di suo marito, ha parlato di amore e di dono ricevuto, di anni di grazia, goduti uno ad uno (tanto per zittire chi sentenziò senza cuore che sarebbe stato meglio se moriva subito). Ha ricordato com’era quando stava bene, quante meravigliose opere ha compiuto e poi ha detto che il suo Signore gli ha domandato la prova più difficile, per lui sempre abituato a dare per primo: e cioè la condizione di dover accettare l’aiuto degli altri senza poter ricambiare.

A differenza del povero Vincent, Stefano era attorniato solo da gente che lo amava e nessuno ha fatto ricorso a tribunali per chiedere che venisse sospesa la sua alimentazione forzata, ma molti hanno pregato e si sono stretti tra loro, nell’amicizia vera e fraterna, per sostenersi e per sostenere lui. Gli innumerevoli nipoti, alcuni anche piccoli, che non lo hanno mai conosciuto quando era un uomo forte e possente, hanno comunque visto in quello sguardo perso e nell’amore di tutti gli amici intorno a lui la dignità di una persona viva e vera. E alla fine lo hanno salutato con un grazie, zio Stefano, ci vediamo in paradiso.

Forse la coscienza si trova ad uno stato minimo non tanto in Vincent, quanto nelle persone intorno a lui, che dovrebbero proteggerlo e invece lo vogliono morto (di fame e di sete).