di Gabriele Vecchione
Gran Torino, 2008, diretto ed interpretato da un magistrale Clint Eastwood, è un film sull’espiazione e sull’amicizia prima ancora che sulla xenofobia, in cui il protagonista Walt Kowalski, morendo in favore del suo amico, s’assimila al sacrificio di Gesù Cristo.
L’itinerario di questo veterano di guerra americano, patriottico, tradizionale, dal linguaggio gagliardamente stereotipato e burbero (e con punte di humour esilaranti) sembra pian piano imboccare la strada dell’espiazione (sofferenza vicaria) perché il suo amico possa avere vita, scampando da una condanna ineluttabile, dalle angherie del prepotente nemico.
Parafrasando G.K. Chesterton, abbiamo frequentato riunioni di condominio e crediamo dunque al peccato originale, che forse non è un monstrum horribile agostiniano ma una condizione esistenziale, data e gommosa: così siamo presi (attratti e al contempo riluttanti) continuamente dal male nella sua multiforme composizione – interno, esterno, sociale, personale e via discorrendo.
Il vicino di casa di Walt, il giovane Thao, di origine Hmong (etnia del Sud-Est asiatico), subisce prevaricazioni dalla gang del cugino, che vorrebbe assoldarlo a scopi criminosi. Refrattario, la sua libertà comincia a restringersi di fronte agli accusatori («femminuccia!»), fin quando non interviene – dapprima con le sue armi da fuoco, poi in ben altra maniera – Walt.
Thao non ha la forza per resistere al peccato (da άμαρτία, mancanza), cioè allo sprecare la sua propria vita nella futilità nel male. Dalla realizzazione della sua vita lo divide qualcosa come un invalicabile muro di separazione, con cocci aguzzi di bottiglia in cima, qualcosa come una lastra sepolcrale che da sé non può spostare.
Walt si fa volontariamente crivellare («nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso», Gv 10,18) dal cugino di Thao e dai suoi sgherri, andando sotto il loro covo, fingendo di essere armato e infilando la mano nella tasca interna della giacca, simulando di estrarre la pistola, ma impugnando solo un accendino. Morendo, sussurra sulle labbra la sua prima preghiera: «Ave Maria». Cade a terra a braccia aperte, disteso come su una croce – evidente la simbologia cristica. Fa rinchiudere in carcere i nemici, cosicché non abbiano più a taglieggiare Thao ed il suo popolo: «È stato precipitato l’Accusatore» (Ap 12,10).
Il film si apre con il funerale della moglie di Walt e con il successivo e tipicamente americano rinfresco. Il prete, un «27enne vergine imbottito di letture che gode a tenere le mani a vecchie signore superstiziose alle quali promette l'eternità», privo di com-passione, non sa dire altro che rituali parole algidamente accademiche; i figli, farisaicamente untuosi, adducendo motivazioni apparentemente nobili, vorrebbero rinchiuderlo in una casa di riposo, per appropriarsi subito della casa e della macchina d’epoca Gran Torino, della Ford, che dà il titolo alla pellicola. La moglie era per il veterano la donna più sublime del pianeta, per i nipoti è perfino una noia partecipare al rinfresco in onore della nonna: eppure vi sono obbligati dalle convenzioni familiari verso cui i figli e le nuore si mostrano assai premurosi. Così, se ci è permessa ancora l’assimilazione suddetta, Walt ingaggia una battaglia a morte contro l’ipocrisia, come fu per Gesù di Nazareth (cfr. Mt 23):
«Tutto il suo essere e il suo vivere è, in tutto e per tutto, unità, decisione, lucidità: pura chiarezza, pura verità. Lasciava tale impressione di veracità, di lealtà, di rettitudine e di forza che neppure i suoi nemici potevano sottrarsene: Maestro, noi sappiamo che tu sei veritiero e non hai paura di nessuno.
Proprio qui, in questa unità, in questa rettitudine, chiarezza del suo intimo sta la spiegazione psicologica della sua lotta a morte contro i farisei, contro i sepolcri imbiancati, contro quei rappresentanti di tutto ciò che è falso, basso, puramente esteriore, di ciò che rende intollerabile la religione e la vita. Tale condotta gli ha aperto la via della croce…
Gesù è un carattere eroico al sommo grado: è l’eroismo incarnato. Tale senso d’eroismo, tale assoluta dedizione della vita alla verità conosciuta, egli esige anche dai suoi discepoli. Per lui l’eroismo è la regola. Al giovane ricco che ha osservato tutti i comandamenti, manca ancora una cosa: Va’, vendi tutto, poi seguimi» (Karl Adam, Gesù il Cristo, Morcelliana).
Il protagonista del film non patisce relazioni che non siano massimamente autentiche. La moglie, come una delle ultime volontà, aveva fatto promettere al prete di confessare il marito che non calca l’inginocchiatoio di un confessionale da svariati decenni, ma Walt non può farlo se non in maniera autentica, verace, franca:
«Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia sono uomini che attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano credibile Dio in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto le porte all’incredulità» (Ratzinger).
Così decide di riconciliarsi in articulo mortis, solo quando è ormai è una creatura nuova e ha deciso di amare dando il suo sangue, la sua vita:
«Quando la gente chiede a me, o a qualsiasi altro: Perché vi siete unito alla Chiesa di Roma? La prima risposta essenziale, anche se in parte incompleta, è: Per liberarmi dai miei peccati. Poiché non v’è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati. Ciò trova la sua conferma nella logica, spaventosa per molti, con la quale la Chiesa trae la conclusione che il peccato confessato, e pianto adeguatamente, viene di fatto abolito, e che il peccatore comincia veramente di nuovo, come se non avesse mai peccato. […] Orbene, quando un cattolico ritorna dalla confessione entra veramente, per definizione, nell’alba del suo stesso inizio, e guarda con occhi nuovi attraverso il mondo, ad un Crystal Palace che è veramente di cristallo. Egli sa che in quell’angolo oscuro, e in quel breve rito, Dio lo ha veramente rifatto a Sua immagine. Egli è ora un nuovo esperimento del Creatore. È un esperimento nuovo tanto quanto lo era a soli cinque anni.
Egli sta, come dissi, nella luce bianca dell’inizio, pieno di dignità, della vita di un uomo. Le accumulazioni di tempo non possono più spaventare. Può essere grigio e gottoso, ma è vecchio soltanto di cinque minuti» (G.K. Chesterton, Autobiografia, Lindau).
Creatura nuova, dopo la confessione, conosciuta e ratificata la propria missione, ultimate tutte le questioni – passa a salutare gli amici, ordina un vestito nuovo –, Walt sale decisamente verso Gerusalemme, come fu per il Signore. Solo col proprio dolore, nel suo Getsemani, Walt può scegliere un passo così ardito che pure farà grande il suo nome. Scopre di avere un male probabilmente incurabile e non si affanna ad eliminarlo distraendosi od offrendosi palliativi di diverso genere. Il dolore lo riporta al centro di se stesso, come «frequentazione col mistero» (Martin Buber).
L’angoscia di Walt è anche morale. Nel film è mirabile la sequenza in cui, tremendamente irato perché la sorella di Thao è stata stuprata dalla gang, entra in casa sua, strepita, lancia oggetti, tira pugni ai mobili e, ferito alle mani, medita come quei ragazzi possano valicare quel muro che impedisce loro la felicità. Non si può rassegnare al sopruso, alla sofferenza dell’innocente. Pare di leggere una pagina di Isaia: «Il Signore avanza come un prode, come un guerriero eccita il suo ardore; grida, lancia urli di guerra, si mostra forte contro i suoi nemici» (42,13). È lo stesso grido da guerriero che lancia Gesù di fronte alla tomba di Lazzaro: «… gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). La notte in cui Walt si lascia macellare sembra così la notte tra il sabato santo e la domenica di resurrezione: Mors et vita mirabile duello conflixere mirando… dux vitae regnat vivus.
Il sacrificio di Walt non è fine a se stesso, secondo l’etica del risentimento che disgustava Nietzsche, ma dà libertà e vita – «vita in abbondanza» (Gv 10,10) – a Thao, alla sorella e al loro popolo. La morte di Walt è in loro favore – così per noi la morte di Gesù che, autore della vita, ha schiacciato la morte dal suo interno.
Il testamento che il veterano dispone e che il notaio legge davanti alla famiglia attonita nel suo perbenismo è il franco compimento di un film memorabile:
«Ora veniamo all'ultimo punto, e di nuovo mi scuso per il linguaggio del testamento di Mr. Kowalski, io mi limito a leggerlo così come è scritto: ‘E vorrei lasciare la mia auto del '72 Gran Torino a… alla persona che più la merita… Thao Vang Lor. A condizione che tu non scoperchi il tetto come uno stronzo messicano, che non ci dipingi quelle ridicole fiamme gialle come un qualsiasi coatto bianco e che non metti sul retro uno di quegli spoiler da checca che si vedono sulle auto degli altri musi gialli. Fa veramente schifo. Se riesci a non fare tutte queste cose, è tua’».
Grazie alla Passione del Signore, come Thao possiamo vivere abbondantemente – girare in pace con la nostra Gran Torino.