di Daniela Bovolenta (da «La Croce» 7 febbraio 2015)
«Vieni con me nel deserto»: è la voce che sente una giovane americana di origini italiane, Julia Crotta, musicista, sportiva – è molto alta e gioca a basket da campionessa –, studentessa modello. Julia ha ventisette anni, sta partecipando quasi per caso a un ritiro spirituale in preparazione alla Pasqua e vive quella che definirà una nox beatissima, un’esperienza che cambia il corso della sua vita, durante la quale Gesù in persona la chiama a fargli compagnia nel deserto e il cui esito finale saranno quarantacinque anni di reclusione monastica. Non capisce subito cosa le è richiesto e non sa davvero come metterlo in pratica. Valuta anche la possibilità di recarsi materialmente nel deserto della Palestina, ma ha l’equilibrio e il buon senso di ascoltare fedelmente i consigli del proprio direttore spirituale. «Non mi fido assolutamente di quanto provo, anche quando credo che venga da lui [Dio]. Mi fido invece di chi parla nel suo nome», scriverà anni dopo. Anche in seguito, nei lunghi anni di prova spirituale, quando ogni tentativo di seguire la sua particolarissima vocazione sembra destinato a fallire, Julia non farà mai nulla, non prenderà decisioni, senza il consenso del proprio direttore spirituale, che per lei rappresenta la voce della Chiesa e, in ultima istanza, la voce di Cristo in terra. Julia è tanto decisa nel perseguire il proprio dovere, quanto è docile nel cambiare i propri piani quando è certa di fare la volontà di Dio: «Le parole di Dio trapassano come un lampo potente. Senza che neppure ci si accorga, si fa quanto comandano».
Passeranno undici anni da quella prima chiamata al deserto, senza che Julia mai abbandoni il suo proposito e mai scalpiti per fare di testa sua. Riuscirà infine a trovare la sistemazione che desidera a Roma, presso il monastero di Sant’Antonio abate, come reclusa dell’ordine camaldolese. Il 21 novembre 1945 Julia viene ricevuta da papa Pio XII, il quale le dà la sua benedizione, legge il regolamento di vita che Julia ha stilato per la propria reclusione, teme che sia troppo esigente per la giovane donna, ma alla fine l’approva. Subito dopo monsignor Giulio Penitenti, che si è occupato della sua sistemazione, accompagna Julia nella cella dalla quale non uscirà più fino alla fine della sua vita. Di questo momento Julia scriverà: «Capii che egli mi offriva a Dio per tutta la Chiesa».
Per tutta la vita Julia, ormai suor Maria Nazarena, sarà una donna forte, equilibrata, allegra, così la descrivono le uniche persone con cui ha rarissimi contatti: padre Anselmo Giabbani, a lungo Procuratore generale dell’Ordine camaldolese e suo padre spirituale fino alla fine della vita, e la Madre Abbadessa del monastero presso cui risiede.
«Mai, in questi 43 anni, ho provato tristezza, noia; al contrario una gioia sempre nuova, che non perde la sua freschezza. Come quella dell’eternità», scrive suor Nazarena un paio d’anni prima di morire, nei ricordi autobiografici estesi su insistenza del padre Giabbani. Allo stesso padre sono indirizzate gran parte delle sue lettere, nelle quali suor Nazarena alterna una devozione filiale al suo direttore spirituale a numerosi consigli fraterni, che riguardano la vita dello spirito, la riforma dell’Ordine camaldolese, i rapporti di padre Giabbani con i confratelli.
L’ordine camaldolese è sin dalle sue origini, per volontà del suo fondatore san Romualdo, diviso in un ramo cenobitico e in uno eremitico e nella sua lunga storia si contano numerosi casi di veri e propri reclusi. Suor Nazarena è consapevole della straordinarietà della propria vocazione e consiglia che il responsabile dell’Ordine ottenga dai suoi monaci con la dolcezza e con la persuasione quei sacrifici e quell’austerità di vita ai quali lo spirito si ribellerebbe, se fossero imposti con la forza. Sa bene che neppure la vita eremitica può essere indistintamente allargata a tutti i monaci e soprattutto che non ci si può arrivare se non dopo un lungo percorso di preparazione spirituale. Tale preparazione era avvenuta per lei grazie al crogiolo di sofferenze attraverso cui era passata durante gli undici anni intercorsi tra la chiamata al deserto e il suo ingresso nella cella di reclusione. Aveva tentato alcune comunità religiose molto rigorose, come era allora il Carmelo, ma l’evidente distanza tra la vita che vi si conduceva e la percezione interiore della propria vocazione l’avevano portata a uno stato di consunzione tale da far temere per la sua salute. Nazarena però sa che non avrebbe potuto affrontare la solitudine, i rischi di desolazione e di esaltazione che comporta, il rischio fortissimo di illudersi circa la propria condizione spirituale, senza essere passata in precedenza da un lungo periodo di prova.
La regola di vita di suor Nazarena è molto rigorosa: vive in una cella di cinque metri per tre, dorme, senza materasso e cuscino, su una cassapanca di legno a cui è stata inchiodata una croce, lavora alcune ore al giorno intrecciando le palme che si distribuiscono nel periodo di Pasqua, ha momenti di preghiera, di studio e di lectio divina, partecipa alla Messa da una finestrella con grata, attraverso la quale riceve la comunione, ha un regime alimentare a pane e acqua quasi tutti i giorni della settimana (alcuni giorni si aggiungono un cucchiaino d’olio, un po’ di frutta o di verdura, o ancora un poco di marmellata), ulteriormente inasprito in quaresima e nei tempi penitenziali della Chiesa. Eppure sarà sempre sana, equilibrata, di buon umore. Nazarena, che da giovane aveva avuto un appetito robusto, scrive: «Soffro la fame (e ne sono contenta; altrimenti non avrei nulla da offrire), ma è sopportabile».
La chiave della vita di suor Nazarena è un’offerta totale di sé, in unione alle sofferenze di Cristo, per il bene delle anime e della Chiesa, ma nel totale nascondimento: «La supplico di non dire più nulla di me, lasci cadere tutto nel vuoto, nel silenzio. Credo che l’ora di Dio sia ancora molto lontana. Ho l’impressione che scoccherà solo dopo la mia morte».
Le sue lettere, i suoi ricordi autobiografici, riportano un’esperienza fuori dal tempo, con parole e accenti che richiamano quelli dei padri del deserto, una profonda conoscenza della Bibbia e della patristica traspare anche attraverso l’italiano talora incerto che usa.
Suor Nazarena muore a 82 anni, nella sua cella, esattamente venticinque anni fa, il 7 febbraio 1990, proprio il giorno in cui i benedettini camaldolesi fanno memoria di san Romualdo: attorno a lei sono riunite le monache sue consorelle, molte delle quali la vedono in volto per la prima volta. Dopo poche ore di malore, ricevuta la benedizione di padre Giabbani, viene portata una poltrona nella cella – per quarantacinque anni non aveva mai avuto né una sedia né un tavolo – per permetterle di respirare meglio, la comunità la raggiunge e la circonda, cantando l’inno Canta la sposa.
«Vedo che non ho altro da offrire a Dio, all’Ordine, alla Chiesa, che un grande dono di Dio che mi può essere tolto ogni momento: una speranza senza limiti nell’amore, nella potenza, nella misericordia infinita di Dio e nella Regina e Madre celeste. Speranza che mi ha dato la forza durante tutti questi anni di dire sempre “Ora comincio”».