All’inizio del dialogo Agostino chiede al figlio Adeodato a cosa serva il parlare (loqui), cosa cioè si produca quando si parla. È questo il primo tema di tutta l’opera: riflettere sulla capacità dei segni di ricreare, nella mente di chi li riceve, il medesimo contenuto pensato da chi li ha prodotti. La prima definizione indica che il parlare è funzionale a insegnare (docere): anche quando si fanno domande per imparare (discere), infatti, lo si fa per insegnare a qualcuno cosa si desidera sapere da lui. Adeodato obietta che, se il parlare è produrre parole (verba promere), si parla anche quando si canta e si prega, attività che non hanno come fine l’insegnamento; si canta infatti spesso da soli e per solo diletto, mentre è oltraggioso pensare che si possa pregare per ricordare o, peggio, per insegnare qualcosa a Dio. Agostino replica illustrando il secondo, essenziale tema del dialogo, strettamente legato al primo: esiste una forma di insegnamento, forse la più profonda e genuina, che, non affidandosi alla comunicazione orizzontale dei contenuti, che alla fine si dimostrerà inefficace, riporta alla memoria il vero dalla verticalità dell’interiorità.
Insegnare, cioè, significa fare memoria. Riportare alla memoria la verità di cui si è costituti, tutti, motivo per cui tutti siamo sempre “studenti”, discepoli, e il nostro ammaestramento non è mai finito. «Il parlare, dunque», osserva Bisogno, «è legato soltanto all’insegnare o al far ricordare, a se stessi o agli altri. Le due attività, fa intendere da subito Agostino, sono intimamente connesse: non solo infat¬ti il vero insegnamento si ottiene quando si riporta alla memoria un contenuto profondo, latentemente presente nell’animo ma, nel particolare e nel quotidiano, ricordare non è altro che insegnare a se stessi, vale a dire usare segni linguistici per far riaffiorare, dalla memoria, immagini di ciò che si è conosciuto». Guardiamo, invece, cos’è divenuta la parola nel linguaggio televisivo, sui mass-media di ogni genere, nel “dialogo tra sordi” che è la dimensione normale dei rapporti tra le persone…
Ma è la penna stessa di sant’Agostino a dirlo con le parole inimitabili del De magistro:
Forse i maestri si impegnano in questo affinché vengano recepite e possedute le cose che hanno pensato o le discipline stesse, che pensano di trasmettere parlando? Infatti chi si preoccuperebbe tanto stoltamente da mandare suo figlio a scuola perché impari cosa pensa il maestro? […] Sbagliano allora gli uomini, che chiamano maestri quelli che non lo sono […]
In assenza della verità da insegnare e da imparare, cioè da far riemergere e da custodire nella memoria viva di sé, la scuola, ogni scuola, scade nell’opinione che ci si fa dell’opinione che gli altri si sono fatti delle cose. Nelle Retractationes, sant’Agostino lo dice con una chiarezza inimitabile:
Ho scritto un libro, che ha per titolo De magistro, nel quale si discute e ci si interroga e infine si scopre che non c’è maestro che possa insegnare all’uomo la scienza se non Dio, secondo quello che anche nel Vangelo è scritto: «Uno è il vostro maestro, Cristo».